Domaine Les Capréoles
Proprio come l’arte, il
vino è una forma di
libertà: nessuno può
stabilire come crearlo.
Cédric Lecareux è un produttore biologico e biodinamico, che fa della vinificazione naturale una questione di valori oltre che di gusti.
“Sei in Francia, vero?” ha chiesto eccitato il mio amico Rexi dopo aver visto il mio ultimo post su Instagram. Non sono le stories sul vino o le foto dei vigneti a suggerirgli che sono andato oltralpe. È l'atmosfera unica.
Quando si arriva nel Beaujolais si ha in effetti la sensazione di entrare in un ecosistema diverso, fatto di colline e valli punteggiate da castelli e villaggi, ma anche di pranzi conviviali, osterie di campagna, bistrot, caffè all'aperto, cantine e ristoranti stellati Michelin.
C'è un luogo per ogni stile di vita e per ogni stato d’animo, basta non avere nessuna fretta e tutto il tempo per godersela. Qui infatti l’orologio cammina al ritmo dell'uva in maturazione.
Sono le 14, il sole è rovente, e mi trovo con Simona nel piazzale che affianca la grande casa padronale del Domaine Les Capréoles. L’aria sembra quella di un forno, c’è soltanto qualche raro, flebile sbuffo d’aria a concederci l’effimera tregua del refrigerio (parola grossa, molto grossa!).
Cédric esce dalla porta di casa in t-shirt rossa e bermuda kaki, il sorriso sul volto e la mano già protesa verso di me. Vuole sbrigare rapidamente le formalità e passare subito al divertimento. “Per quale altro diamine di motivo sareste qui?” è la domanda retorica che ci fa.
Dal 2014 Cédric Lecareux e sua moglie Charlotte sono i proprietari di questi 5.5 ettari nel piccolo villaggio di Régnie-Durette. Dopo cinque anni passati a fare il direttore delle tenute del Gruppo Gérard Bertrand, Cédric ha deciso di acquistare i primi 3 ettari e da quel momento non si è più guardato indietro, nonostante l’obiettivo - ambizioso ed encomiabile - di riconvertirli al biologico e poi al biodinamico gli abbia fatto incontrare più di una complicazione.
Lo seguiamo all’ombra (evviva!) della zona boscosa della tenuta mentre ci porta a conoscere le sue vigne, poste su un pendio esposto a sud.
Fermo tra due filari Cédric inizia a dipingere nell’aria, proprio come se avesse un pennello in mano, i limiti del suo domaine e a indicare le particolarità della vallata e della catena montuosa che, lontana ma efficace, ripara le sue uve dai venti provenienti da ovest.
Sempre sorridendo, ci racconta quanto sia stato duro, all’inizio, lavorare sulle viti.
La potatura è una delle azioni fondamentali per fare di un vino un grande vino, e il primo anno ha avuto un carattere speciale e impegnativo: dopo anni e anni di viticultura convenzionale doveva preparare ogni ceppo per restituirlo all’utilizzo dell’aratro.
L’utilizzo dei diserbanti aveva infatti portato le radici a vagare in superficie e aveva abituato i ceppi ad appoggiarsi e a crogiolarsi sul terreno, rendendo impossibile il passaggio tra le viti di qualsiasi aratro.
In quel primo anno, con i Rolling Stones sempre nelle orecchie, Cédric ha lavorato su ogni ceppo con le proprie mani, come un fisioterapista gentile ma inflessibile, determinato a insegnare come recuperare mobilità, funzionalità e abilità.
Girava intorno al moncone per trovare la presa migliore. Lo abbracciava e lo recuperava, centimetro dopo centimetro, percependo la resistenza del legno, facendo attenzione anche ai più piccoli scricchiolii per avvertire quando il punto di rottura si avvicina.
L’obiettivo era quello di raddrizzare ogni moncone, mutilarlo per rimetterlo in riga, sostenerlo con un paletto che lo riportasse a una postura eretta proiettata verso il cielo e permettere così il ritorno dell'aratro.
“Hai a che fare con la natura e con tutti i suoi elementi. Ti rendi conto che è lei il capo, non sei tu a decidere quanto vino farai quell'anno... Ma lavorare in squadra con lei, far parte del suo team insieme al sole e alle nuvole e all’acqua, questa è la cosa più eccitante di questo lavoro.”
Abbandoniamo le vigne per dirigerci nell’area di produzione. Da pittore a fisioterapista a monaco benedettino: ora Cédric ci fa strada tenendo saldamente in mano un enorme mazzo di chiavi. Sono chiavi antiche, fatte per aprire porte secolari in legno massiccio, pesanti da spingere mentre ruotano e cigolano sui loro cardini.
Entriamo nella sala di produzione e una goduriosa aria fresca naturale ci investe. Io e Simona decidiamo che con l’arsura del mondo là fuori abbiamo chiuso, che rimarremo qui per sempre, freschi e deliziati.
Qui Cédric ci spiega che il nome Capréoles, in francese antico, indica i viticci della vite. Lui e la moglie hanno scelto questo nome per tutto ciò che comprende e che sul loro sito web è descritto così: “il riferimento alla Storia e alla Tradizione, il supporto naturale che permette la crescita verticale della vite ma anche l'idea di relazione che vogliono instaurare con chi apprezza il loro lavoro”.
Cédric passa poi a raccontarci qualcosa che sul sito non c’è, ovvero che la storia di Domaine Les Capréoles è prima di tutto la storia di un colpo di fulmine tra lui, sua moglie e la proprietà precedente.
Per più di due secoli la tenuta è rimasta un possedimento della famiglia Mouton. Quando Cédric e Charlotte, rapiti dalle pietre antiche, dalla cornice boscosa, dalle antiche cantine ad arco e dai vigneti adiacenti, fanno la loro offerta a Sophie, l’ultima discendente, questa palesa chiaramente che la sua disponibilità a vendere è strettamente vincolata all’accettazione, da parte degli acquirenti, della trasmissione e della continuità. Cédric e Charlotte le fanno presente che loro sono più che disposti a trasmettere e continuare e… voilà, les jeux sont faits.
Mi viene spontaneo fare tra me e me questo confronto: se le regioni vinicole toscane sono fiere e socievoli e disinvolte, quelle di qui sono altrettanto fiere ma schive, riservate e segnate da lealtà familiari che risalgono a tempi lontani.
Soffermo l’occhio sulla statua di Saint Vincent, il patrono delle vendemmie passate e future: è rassicurante sapere che continuerà a vegliare su questa stanza anche dopo che noi ci saremo spostati nella sala di invecchiamento in botte.
Entrando siamo sopraffatti da più odori inebrianti: umidità, legno, muffa, cenere, funghi.
Stanze come questa sono, per quel che mi riguarda, la parte più vera di ogni visita. Per qualche secondo è come se il vino lo respirassi, è come se avessi nel naso, tutti assieme, gli elementi che lo compongono e ne agevolano il processo di crescita.
Non è solo che l’aria sa di vino, è il vino che è diventato aria. E io la sto assaggiando.
Mentre sono perso via, le narici dilatate per assaggiare al meglio, Cédric spiega a Simona che per lui e per la maggior parte di quelli come lui, sviluppare e bere vino naturale è molto più che una questione di gusto; è una questione di valori, e quindi una precisa scelta di condotta, una presa di posizione politica.
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In Francia la vinificazione è l’arte di chi viene accettato in una società segreta dalle regole rigide: solamente coloro che le rispettano, e che padroneggiano il galateo, si guadagnano il diritto di farla. Ma la vinificazione naturale è l'opposto. Qui l’imperativo è condividere e collaborare, invece di chiudersi a una cerchia ristretta ed esclusiva si tratta di includere, di aprirsi a ogni provenienza, ogni riferimento culturale e ogni budget.
È giunto il momento di assaggiare veramente. Seduti sotto il soffitto ad arco seguiamo con lo sguardo Cédric mentre dispone sul tavolo una serie di bottiglie.
Con il mio pessimo francese cerco di decodificare i nomi sulle etichette ma Cédric mi viene in soccorso: non è colpa mia se non capisco, sono tutti nomi inventati, per lo più dalla figlia.
Di seguito quello che ho imparato.
L’Amourgandise è il match tra la parola amour e la parola gourmandise che significa “mangiare con golosità”. Un bel giorno la piccola Margot dice che quel che prova per la cioccolata è “Amourgandise”. Detto fatto: da neologismo a naming sull’etichetta.
Chamodère è un nome composto: da chameau, che vuol dire “cammello”, e dromadaire, che vuol dire “dromedario”. Da piccola Margot fa fatica a distinguere i due animali per via del numero diverso di gobbe, e allora conia “Chamodère” e bon.
Hydrophobe invece non è un neologismo. È solo per scherzare sul fatto che qui, mi dicono, “preferiamo bere vino che bere acqua”. A posto così.
Mi piacciono tutti, e non solo per i simpatici nomi di fantasia. Ma se devo scegliere, qui il mio campione è Axiome. Il nome, questa volta, non è di fantasia: la parola, in francese come in italiano, designa l’evidenza tale di per sé, che non ha bisogno di alcuna dimostrazione.
E infatti a questo vino non serve proprio niente per convincerci che è un capolavoro. Squisitamente artigianale, proprio come gli altri, ha qualcosa di diverso, qualcosa che mi parla a un livello emotivo, oltre che sensoriale, e che io per questo definisco artistico, e lo so che non sono per niente chiaro ma ci provo lo stesso a mio modo a condividere questo pensiero, con Simona e con Cédric, e lui a suo modo qualcosa deve pur comprendere perché ribatte, come per venirmi dietro: “proprio come la produzione artistica, la produzione vinicola è una forma di libertà, nessuno può stabilire come crearla.”
Axiome, L’Amourgandise, L’Hydrophobe, Sous la Croix e Alio Pacto sono i vini del Beaujolais prodotti a Domaine Les Capréoles che abbiamo selezionato per te. A noi suggeriscono, in fila: anarchia, allegria, fantasia, nobiltà ed estrosità.
Il sud della Borgogna negli ultimi anni si è aperto all'arte, alla gastronomia, agli stranieri che hanno iniziato ad acquistare in zona le loro case per le vacanze. E la notizia migliore, per noi, è che i vini del Beaujolais stanno crescendo e migliorando sempre di più, anno dopo anno. Le etichette di Cédric ne sono, di per sé, l’evidenza, anzi, ne sono l’assioma.
Non abbiamo tenuto fede alla nostra decisione. Sarà che la degustazione ne ha eliminato ogni traccia dalla nostra memoria. Siamo tornati sotto il sole, ancora rovente, ma ce ne accorgiamo appena: siamo troppo presi da Cédric e dalla sua – com’è che l‘ha chiamata, prima? – scelta di condotta.
Parlare con lui è stato un piacere: intraprendente, visionario, la sua energia ci ha messo di buon umore, e malgrado la calura ci sentiamo pimpanti.
Ci salutiamo, e lui rimane fermo sotto al sole. Non per guardare noi ma l’orologio: sta aspettando che la sua Margot, la-bambina-che-sussurrava-i-nomi-dei-vini, faccia ritorno da scuola e appaia sul vialetto di casa.